CHE·NON·È·PIÙ

by Luigi Fieni

Ci sono parole cupe destinate a tornare periodicamente attuali o, peggio ancora, a non uscire mai dalla classifica delle più usate. “Rifugiato” è una di queste. Una parola che evoca l’atto di mettersi in salvo in un luogo protetto, ma che in realtà è sinonimo di essere umano obbligato a lasciare tutto prima di riparare altrove, per salvarsi da ciò che sta accadendo nella sua terra d’origine.

Il termine viene scelto nel 1951 per definire nel diritto internazionale lo status di chi «nel giustificato timore d’essere perseguitato per ragioni di razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per opinioni politiche, si trova fuori dallo Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato».

Il progetto fotografico di Luigi Fieni “CHE·NON·È·PIÙ” è dedicato proprio ad uno di quei popoli che da troppo tempo vivono in una condizione tanto drammatica di sradicamento e di esilio: il popolo tibetano. Nel 1950 la Cina invade il Tibet e quando il Dalai Lama, nel 1959, scapperà in India (dove ancora vive in esilio), anche la gente comune fugge in massa dalla propria terra, per rifugiarsi poi nei campi profughi sorti in India e in Nepal. «Queste foto – racconta Luigi – le ho scattate proprio in Nepal nei campi di accoglienza creati a partire dall’inizio degli anni Sessanta nella zona di Pokhara – a Dorpattan nel 1961, a Tashi Palkhiel nel 1962, a Tashiling nel 1964 e a Jampaling nel 1975 – e nel 1997 a Kathmandu. Chi vive in quei luoghi come “rifugiato” ha perso la speranza di tornare in Tibet. Gli anziani in particolare sono stati raggruppati in centri dove ricevono cure, cibo, conforto e preghiera, parte fondamentale della loro cultura. Parecchi di loro avevano contribuito attivamente alla guerriglia contro l’invasione cinese, per proteggere l’ideale più importante per ogni popolo: quello della libertà…».

Restauratore, fotografo, pittore e disegnatore, ormai perfettamente integrato nella vita locale, Luigi descrive questo progetto come il frutto di una serie di connessioni nate “per caso”. La sliding door che lo ha condotto in Nepal e anni dopo di fronte ai rifugiati tibetani è stata l’incontro con l’American Himalayan Foundation, attiva dal 1981 nella ricerca di finanziamenti per dare assistenza sanitaria e istruzione alla gente che vive sul “tetto del mondo”. Luigi lavora con la Fondazione dal 1999, come restauratore, in un affascinante progetto di formazione dei giovani nepalesi nel recupero dei monasteri del Mustang. E sarà proprio la Fondazione a chiedergli di collaborare come fotografo alla ricerca di sponsor per i progetti di sostegno e sviluppo dedicati ai bambini disabili, alla tratta delle ragazze tra India e Nepal e ai rifugiati tibetani. Questi ultimi Luigi li incontra per la prima volta nel 2009, ma tornerà a fotografarli nel 2013, 2016, 2017 e 2019; nei campi di accoglienza oltre ventimila persone vivono una vita privata anche solo della possibilità di immaginare un futuro degno. Alcuni, grazie al sostegno ricevuto, hanno aperto piccole attività commerciali e svolgono esistenze “normali”, all’apparenza. Ma da ogni dettaglio dei loro alloggi traspare un senso opprimente e indelebile di provvisorietà. Lo spazio è come contratto. Il letto in cui dormono sembra essere “casa”: tutt’intorno, vicino vicino, si ammassano gli oggetti di uso quotidiano – vestiti, scarpe, pentole, ciotole, qualche strumento del mestiere – e un piccolo altare per la preghiera, con gli oggetti di culto, i fiori finti.

Ognuno di questi uomini e donne porta addosso evidenti i segni di una vita giunta ormai a quella fase in cui le energie si riducono e tocca imparare a fare i conti con i limiti e con l’impotenza. Un’impotenza che va ben oltre l’immaginabile. «La loro storia si può leggere in ogni sguardo, in ogni singola ruga», afferma Luigi, che ha scattato questi ritratti in tempi proibitivi. Solitamente i suoi ritmi di lavoro sono lunghi, distesi: i suoi progetti personali, dedicati soprattutto al paesaggio, alle cerimonie sacre, possono durare anni e implicano l’uso della fotografia analogica, mentre in questo caso ha avuto ogni volta poche ore per scattare, in digitale. Per riuscire a creare quel minimo di relazione necessaria a non “rubare” momenti privati, ha inventato strattagemmi da “giullare” e così è riuscito a catturare sguardi saturi di ricordi, talvolta sorrisi accennati, altre volte espressioni spaesate, indecifrabili. Luigi immagina che quando gli anziani guardano apparentemente nel vuoto, in realtà stiano rivedendo il loro passato, «che per loro è un luogo sicuro, come una culla». Un luogo in cui riposare i pensieri. Perciò ha scelto un titolo – “CHE·NON·È·PIÙ” – che pone l’accento su ciò che queste persone hanno perso, recuperando proprio dalla tradizione tibetana la sillabazione cadenzata da piccoli punti, chiamati “tseg”.

L’esito non sono semplici ritratti, ma qualcosa di più, perché ogni persona anziana è una sorta di “monumento della memoria”: come un luogo fisico, concentra un crocevia di eventi, usanze, consuetudini culturali e porta con sé, oltre alla propria storia, anche le tracce della Storia grande, in cui ha inciampato. Anche per questo gli anziani tibetani meriterebbero pellegrinaggi, ascolto e spazi fertili, in cui liberare quelle radici rimaste per troppo tempo senza aria e senza casa.

Invece l’unico vero conforto sembra essere per loro la preghiera. Una “presenza” imprescindibile: quasi tutti tengono in mano il “mala”, una sorta di rosario usato dai buddisti per focalizzare la consapevolezza recitando i “mantra”. Tra le loro dita assume l’aspetto di un appiglio, quasi una corda sottile per non perdere l’equilibrio in questo ultimo tratto di percorso e per scandire il tempo rimasto, reso tanto intollerabile da un destino non scelto e da una solitudine senza soluzione.

La dignità dei tibetani rifugiati è quella di grandi alberi estirpati dal terreno, che nonostante tutto resistono, portando le proprie radici all’interno, invisibili ma vive e incancellabili. La dignità di una vita deviata che non prevede un ritorno alle origini, ma una sospensione saldamente ancorata alla memoria di ciò che è stato: il passato da cui ha preso vita la loro identità e che nessuno potrà portargli via.

Francesca Boschetti

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Luigi Fieni

Biografia

Dopo aver cambiato direzione più di una volta, la vita mi porta sull’Himalaya per due decenni, come restauratore di dipinti nei monasteri tibetani e come insegnante di restauro nei siti dove ho lavorato in un progetto finanziato dall’American Himalayan Foundation. La fotografia nasce per necessità, quando divento Direttore dei lavori. Inizio così un cammino da autodidatta, studiando il mondo della fotografia analogica a lume di candela, dopo il lavoro di cantiere. Al lavoro di restauratore si affianca lentamente quello di fotografo: inizio, principalmente come documentarista, a lavorare per ONG internazionali e a collaborare occasionalmente con National Geographic, The North Face, The Financial Times, Meridiani e Bauer Media. Parallelamente esibisco diversi progetti fotografici in America, Europa e Asia. I miei lavori fanno parte di diversi musei e collezioni private, fra cui il Manggha Museum di Cracovia, il Taragaon Museum di Kathmandu e i Musei Vaticani.

Luigi Fieni

After changing direction more than once, life took me to the Himalayas for two decades, as a restorer of paintings in Tibetan monasteries and as a teacher of restoration at the sites where I worked in a project funded by the American Himalayan Foundation. Photography was born out of necessity, when I became Director of Works. I thus began a self-taught journey, studying the world of analogue photography by candlelight, after work on the construction site. My work as a restorer is slowly joined by that of a photographer: I begin, mainly as a documentary filmmaker, working for international NGOs and occasionally collaborating with National Geographic, The North Face, The Financial Times, Meridiani and Bauer Media. In parallel, I exhibit various photographic projects in America, Europe and Asia. My works are part of several museums and private collections, including the Manggha Museum in Krakow, the Taragaon Museum in Kathmandu and the Vatican Museums.

CHE·NON·È·PIÙ

A turno appaiono in televisione o a lettere cubitali sui giornali. Escono fuori dal nulla come le pubblicità. Popoli quasi biblici. Nomi strani, mai sentiti prima. La loro causa diventa una cantilena stagionale e poi – come rabbia e tristezza – scema lentamente con il tempo.

 Nel mio caso si chiamano tibetani ed io li ho incontrati per caso. I rifugiati, intendo. Non in televisione. E nemmeno sui giornali. Davvero, in carne ed ossa. Ma sempre per caso. Quando vivevo e lavoravo in Nepal. Non fanno più notizia ora, perché è passato troppo tempo, parliamo del 1959. Figuriamoci se qualcuno possa ancora ricordare. Il solito sopruso, non vale neanche un reel su TikTok. 

Ma, se vi interessano i numeri, credo ci siano almeno 20.000 tibetani che vivono attualmente in Nepal. Parenti o discendenti della prima ondata, fuggiti dal Tibet dopo l’esodo del ‘59. Ripeto: fuggiti. Non per scelta. Per necessità. La maggior parte senza documenti di identità. Bloccati nei confini geografici di una nazione, vivono una vita in un limbo, dove le loro radici culturali esistono solamente nella loro memoria e nei loro rituali giornalieri. 

Un giorno le incontro, queste persone che vivono nel limbo. Veramente più di qualche giorno. Sono andato a fotografarli diverse volte. In diverse circostanze. In diversi anni. E loro erano sempre lì, nei loro alloggi, nelle loro case. Minuscoli villaggi, che chiamarli campi sa di concentramento e certe parole sono pericolose da usare. Soprattutto di questi tempi. Giornate scandite da ricordi di vite passate. Tutte lì, nei loro occhi.  Se solo avessi il coraggio di fissarli quegli occhi, chissà quanta vita vorrebbero rivivere. E così dopo la posa per la foto ritornano a guardare il vuoto. Io dico vuoto ma chissà dove arrivano quegli occhi. Quanto spazio percorrono. Secondo me arrivano fino in Tibet. Casa. Che non è più.

CHE·NON·È·PIÙ

They appear in turn on television or in large letters in newspapers. They come out of nowhere like advertisements. Almost biblical peoples. Strange names, never heard before. Their cause becomes a seasonal chant and then – like anger and sadness – slowly fades with time.

In my case they are called Tibetans and I met them by chance. The refugees, I mean. Not on television. Nor in the newspapers. Really, in the flesh. But always by chance. When I was living and working in Nepal. They don’t make the news now, because too much time has passed, we are talking about 1959. Imagine if anyone can still remember. The usual abuse, not even worth a reel on TikTok.

But, if you are interested in numbers, I believe there are at least 20,000 Tibetans currently living in Nepal. Relatives or descendants of the first wave, who fled Tibet after the ’59 exodus. I repeat: fled. Not by choice. Out of necessity. Most of them without identity papers. Stuck in the geographical confines of a nation, they live a life in limbo, where their cultural roots exist only in their memories and daily rituals.

One day I meet them, these people living in limbo. Actually more than a few days. I went to photograph them several times. Under different circumstances. In different years. And they were always there, in their quarters, in their homes. Tiny villages, which to call them camps smacks of concentration and certain words are dangerous to use. Especially these days. Days marked by memories of past lives. All there, in their eyes. If only I had the courage to stare into those eyes, who knows how much life they would want to relive. And so after posing for the photo they return to look at emptiness. I say empty, but who knows where those eyes go. How much space they travel. My guess is that they go all the way to Tibet. Home. Which is no more.

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