Arlene
by Clara Vannucci
La storia di Arlene è una storia di redenzione. Una di quelle storie che sembrano destinate a non avere un lieto fine e che per parlarne non si trovano parole adeguate.
Era vittima di maltrattamenti e di abusi reiterati Arlene, da parte di colui che allora era il suo uomo, nonché il padre delle sue figlie. L’ennesima volta che l’incubo si ripete e lui le arriva addosso, di notte, con tutta la violenza possibile, Arlene reagisce e lo uccide, il suo carnefice domestico. Per questo delitto finisce in carcere, dove sconta la sua pena. E quando finalmente è di nuovo “fuori” sceglie di mettere tutte le sue energie a servizio del futuro. Con una forza inaudita, scova chissà dove il bandolo smarrito della sua esistenza e inizia a ricucirne le lacerazioni per ritesserla, nuova e degna, per le sue figlie e per se stessa.
Clara Vannucci viene scelta due volte quale cantastorie per immagini di questa vicenda: dal destino, o meglio dalla sua “maestra”, e dalla stessa Arlene.
Giovanissima Clara era diventata assistente di Donna Ferrato, famosa fotoreporter statunitense, testimone delle brutalità domestiche sulle donne e della realtà dei penitenziari. E sarà proprio lei nel 2009 a deviare la vita professionale di Clara, scegliendo di affidarle un progetto ad elevatissima intensità: fotografare le detenute vittime di violenza e colpevoli di crimini nel carcere di Rikers Island, isola nel cuore dell’East River a New York.
Tra le protagoniste di quegli scatti c’è anche Arlene.
A quella data Clara aveva già lavorato nel carcere di Volterra, realizzando uno straordinario reportage dedicato all’esperienza teatrale della Compagnia della Fortezza, fondata da Armando Punzo nel 1989, con ergastolani e pericolosi criminali come attori. Un incipit che segna la sua carriera: pur occupandosi anche di foto di moda e di viaggio, Clara diventa un punto di riferimento in ambito penitenziario in Italia. Come lei stessa racconta, le fotografie nate in quell’occasione sono molto italiane, hanno un sapore spiccatamente “felliniano”. Uno sguardo adiacente al soggetto il suo, che accorcia le distanze e squaderna le prospettive, accostando primo piano e orizzonti narrativi, protagonisti e comparse con un potente effetto di spaesamento, che talvolta richiama alla memoria gli scatti di Lisetta Carmi dedicati agli emarginati.
Quando inizia a lavorare a New York, lo scenario che si trova di fronte è completamente diverso. Non ci sono maschere, i volti sono privi di cerone, di trucco, nessun costume di scena ci rassicura sulla transitorietà di ciò che stiamo guardando. La realtà carceraria di Rikers Island è cruda. Nessuna attività intrattiene i detenuti, si tratta di un luogo di passaggio, per chi è in attesa di processo. Una sorta di limbo punitivo, privo di spiragli, di ossigeno, di orizzonti. Le foto di Clara, quasi dei monocromi, rispecchiano questa mancanza di fermento vitale, di libertà e dichiarano l’assenza anche solo di un’ipotesi di futuro. Il colore è bandito. Tutto è bianco e grigio e nero.
“Dentro”, racconta Clara, sono banditi anche gli specchi. Tanto che quando inizia a mostrare alle donne le prime foto, la loro reazione è di meraviglia nel ritrovarsi ingrassate, invecchiate, diverse, perché da quando sono entrate hanno lentamente perso la memoria della propria immagine.
«Quando ho cominciato a lavorare con loro – ricorda Clara – immaginavo che sarei stata respinta, pensavo di incontrare donne sulla difensiva, chiuse in se stesse. E invece da subito mi ha colpito quanto fossero disponibili ad entrare in relazione, a giocare con me. C’era una forte complicità femminile, erano curiose. E avevano voglia di stare davanti all’obiettivo». Finalmente potevano di nuovo disporre del proprio corpo, stare al centro dell’attenzione, senza pericoli.
Intorno a loro, in ogni dove, si respirava la negazione dell’essere. Perché il vocabolario del carcere lì funziona così: i messaggi sono contenuti nelle cose di tutti i giorni. Togliere gli specchi significa negare l’identità. Per dirti che sei inferiore, tu – detenuto – hai la sedia più bassa.
Ora la domanda è: come si fa a sentirsi degni, a recuperarsi, a desiderare di avere di nuovo una prospettiva di vita, se anche quando ti siedi per parlare col tuo coniuge, coi tuoi figli, con chicchessia, gli altri stanno seduti più in alto di te?
Eppure Arlene ce l’ha fatta e anni dopo quel primo incontro con Clara, le ha scritto un’email per dirle che avrebbe voluto fosse proprio lei a raccontare il seguito della sua storia. La sua storia di donna di nuovo libera.
Questa fase del lavoro insieme dura dal 2016 al 2019. Periodicamente Clara e Arlene si incontrano e via via nelle foto entrano nuovi elementi: una casa dove vivere con le figlie, sorridenti; un lavoro, che le consente di essere d’aiuto alle donne come lei, vittime di violenza domestica, e ai loro figli; un nuovo compagno, degno di questo nome, con cui condividere la quotidianità; una gravidanza, un neonato, da crescere senza paura. Ritornano i colori.
Nel 2019 la storia di questa lenta inesorabile risalita verso la redenzione viene pubblicata sul New York Times. Ad affiancare le foto scattate da Clara Vannucci ci sono le parole di Arlene Adams.
La dignità di cui Clara dà testimonianza è nuda, spogliata da ornamenti superflui, da sotterfugi, ma un passo dopo l’altro regala il lento schiudersi di una visione molto speciale, quella del lento risveglio dopo un incubo, del respiro dopo una pericolosa apnea, del diritto dopo la colpa. La visione della libertà riconquistata.
Francesca Boschetti
Carcere di Rikers Island, sezione donne maltrattate, 2011. Arlene nello spogliatoio prima di entrare nella sala colloqui.
Come in molti episodi di violenza domestica, il conflitto è degenerato e purtroppo si è concluso, tragicamente, con la perdita del padre dei miei figli. Ho ucciso il padre di Jameeyah e Armani, nel tentativo di proteggere me e i nostri figli da una ennesima aggressione e per questo motivo sono stata arrestata e accusata di omicidio.
Rikers Island Jail, Battered woman section. 2011. Arlene in the changing room before getting in the meeting room.
Like so many domestic violence incidents, the conflict escalated and sadly ended, tragically, with the loss of my children’s father. In the conflict, I killed Jameeyah and Armani’s father. In the attempts of protecting myself and our children from another attack, consequently I was arrested and charged with murder.
Carcere di Rikers Island, sezione donne maltrattate, 2011. Festa del Ringraziamento. Arlene con le sue amiche detenute in attesa di entrare nella sala colloqui.
Con la mia incarcerazione, le ragazze sono state affidate a mia madre. Mentre ero detenuta a Rikers Island, spesso mi preoccupavo profondamente di come gli effetti residui della violenza a cui le mie ragazze avevano assistito le avrebbero influenzate a breve e a lungo termine.
Rikers Island Jail, Battered woman section. 2011. Thanksgiving. Arlene with her friends-inmates waiting to get into the meeting room. With my imprisonment, the girls were placed in the care of my mother. While detained at Rikers Island, I often worried profoundly about how the residual effects of the violence my girls witnessed would affect them in the short- and long-term.
Brooklyn, NYC, 2016. Arlene con le sue due figlie davanti alla sua nuova casa.
È stato solo nel dicembre 2016 che ci siamo trasferite nel nostro primo appartamento. È stato allora che ho potuto dormire nel mio letto per la prima volta in 6 anni. Le nostre vite stavano cambiando in meglio.
Brooklyn, NYC, 2016. Arlene with her two daughters in front of at the time her new home. It wasn’t until December 2016, when we moved into our first apartment as a three person occupancy. It was then, I was able to sleep in my own bed for the very first time in 6 years. Our lives were changing for the better.
Brooklyn, NYC, 2017.
Armani, la figlia di Arlene stanca dopo aver giocato tutto il giorno prima di cena.
Brooklyn, NYC, 2017. Armani, Arlene’s daughter tired after playing all day the U bounce before going out for dinner.
Brooklyn. NYC, 2018. Downtown Brooklyn, CUNY.
Arlene nella zona d’attesa dell’edificio dove lavorava a NYC.
Brooklyn. NYC, 2018. Downtown Brooklyn, CUNY, Arlene in the waiting area of the building where she used to work in NYC.
Brooklyn. NYC. Flatbush, barbecue.
Arlene e la sua famiglia a cena per festeggiare il compleanno di Jameehya.
Brooklyn. NYC. Flatbush, BBQ. Arlene and her family having dinner celebrating jameehya’s birthday.
Winston Salem, North Carolina, 2019.
Arlene con suo figlio Karter, nella sua nuova casa.
Winston Salem, North Carolina, 2019. Arlene with her son Karter, at her new place.
Winston Salem, North Carolina, 2019.
Arlene con sua figlia Armani davanti alla loro nuova casa.
Winston Salem, North Carolina, 2019. Arlene with her daughter Armani in front of their new house.
Winston Salem, North Carolina, 2019.
Arlene con Armani davanti al negozio di alimentari del quartiere.
Winston Salem, North Carolina, 2019. Arlene with Armani in front of the neighborhood grocery store.
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Clara Vannucci
Biografia
Clara Vannucci (Firenze, 1985) è una fotografa documentarista Italiana, i cui lavori ruotano principalmente attorno ai meccanismi dei sistemi giudiziari in diversi Paesi.
Dopo aver conseguito la laurea in design all’Università di Architettura di Firenze, si trasferisce a New York City, dove fa un tirocinio presso Magnum Photo e, successivamente, per oltre due anni, diventa assistente di Donna Ferrato, nota fotoreporter statunitense.
Le storie di Vannucci raccontano il sistema carcerario in Italia e negli USA: “Crime and Redemption” è un reportage fotografico sul progetto di teatro avviato nel carcere di Volterra, dove la recitazione diventa un utile strumento terapeutico e di reintegrazione per i detenuti; “Rikers Island Battered Women Section”, sviluppato con l’aiuto di Donna Ferrato, si concentra sulla vita quotidiana delle detenute del più grande carcere statunitense.
Tra il 2012 e il 2014 vince una borsa di studio a FABRICA dove sviluppa il suo terzo progetto, “Bail Bond. Bondsmen, defendants & bounty hunters”, sempre incentrato sul sistema giudiziario. Bail Bond è un racconto per immagini ambientato nella New York dei nostri giorni; le storie di imputati, dei garanti e dei cacciatori di taglie si intrecciano e illuminano un confine inesplorato del sistema penale statunitense, un luogo in cui criminalità e giustizia si scontrano e si amalgamano.
Ha insegnato fotografia ai detenuti della Casa di Reclusione di Opera, Milano, ed è stata docente di fotografia all’Istituto Europeo di Design (IED).
Collabora con il New York Times e con molte riviste e quotidiani italiani e internazionali (tra i quali Time Magazine, T Magazine New York Magazine, Monocle, Business Insider, BuzzFeed, Vogue Paris, Courier International, L’Uomo Vogue, D La Repubblica, Vanity Fair, Vogue Italia) in particolare nel settore della moda, del reportage e dei viaggi.
Clara Vannucci is an Italian documentary photographer mostly focused on the Criminal Justice System.
Her stories tell the prison system of both Italy and US: with Crime and Redemption, a reportage about theatre in Volterra’s prison, she shows how the method of acting in prison can be a useful tool to changing the way the criminal mind works. In NYC, with the help of Donna Ferrato, she took pictures in the Rikers Island Jail, developing a project about the Battered Women Section of the biggest US jail. She has been awarded a residency at FABRICA between 2012-2014, where she developed her third project about the criminal justice system: Bail Bond. Bondsmen, defendants & bounty hunters.
She used to teach photography to the inmates at the Maximum Security Opera Prison and at IED (European Design Institute).
She is represented by Daria Bonera DB for Corporate and Advertising and she’s freelance for several Italian and International magazines and newspapers, mostly covering fashion, editorial and travel assignments.
She’s a New York Times contributor and her works have been published by Time Magazine, T Magazine New York Magazine, Monocle, Business Insider, BuzzFeed, Vogue Paris, Courier International, L’Uomo Vogue, D La Repubblica, Vanity Fair, Vogue Italia, amongst others.
Arlene – Sopravvissuti, ecco cosa siamo diventati.
Dal 2009 al 2011 ho lavorato come fotografa al carcere di Rikers Island, a New York, per documentare la sezione per le donne vittime di violenza che hanno commesso dei crimini.
Alcuni anni fa ho ricevuto questa email: Mi chiamo Arlene Adams. Sono una delle donne che compare nelle fotografie del tuo articolo. Sì, sono una ex detenuta. Ero nel gruppo della Battered women section “Steps To end Family violence” in quanto condannata per omicidio colposo di secondo grado per essermi difesa dal mio violentatore; che poi era mio marito e il padre dei miei figli. Questo nel 2010. Sono stata rilasciata nel 2012, ed ho dato una svolta alla mia vita. Ora aiuto le vittime di violenza domestica e i figli di genitori incarcerati. Sono ansiosa di raccontare la mia storia. Ciò che c’è di buono, di brutto e di cattivo. Voglio essere una fonte di ispirazione per altre donne.
Così sono tornata a New York per incontrare e fotografare Arlene, una donna che non avevo più visto da 5 anni. Abbiamo deciso di iniziare a lavorare alla sua storia insieme. Queste progetto raccoglie le immagini di quando Arlene era detenuta a Rikers Island, e di Arlene da donna libera, come è ora. E queste parole sono solo una piccola parte della storia di questa giovane donna:
Era il modo di fare che usava per esercitare il suo potere e il suo controllo su di me. Avevo solo 21 anni quando l’ho ucciso con il coltello che tenevo con me, per proteggermi quando ero a letto. Dopo la gragnuola di colpi alla mia testa, alla fine si è sdraiato nella sua pozza di sangue mentre le sue budella si riversavano nella mia mano. La stessa pozza di sangue che le mie due figlie, Armani, che allora aveva 4 anni, e Jameeyah, di 2 anni, hanno dovuto attraversare per uscire dal nostro appartamento. Piccolo e accogliente, ma non lo riuscivo a chiamare casa. Quando rientravo avevo paura. Perché lo condividevo con lui. Il mio aggressore. Proprio come lui condivideva con me innumerevoli percosse e attacchi verbali di fronte ai nostri figli. Traumatizzate, ecco cosa eravamo. Sopravvissute, ecco cosa siamo diventate.
Arlene – Survivors, is what we have now become.
Battered Women Section, Rikers Island Jail
I’ve been working at Rikers Island Jail in NYC as a photographer from 2009 till 2011, documenting the battered women section.
Few years ago, i receive this email: My name is Arlene Adams. I was one of the women photographed by you in your article. Yes, this means I was incarcerated. I was a part of the domestic violence group “Steps To end Family violence” because I was incarcerated in Rikers Island jail for manslaughter 2nd degree for defending myself against my abuser; whom happened to be my spouse and children’s father. This happened in 2010. I was released in 2012, and I’ve turned my whole life around. I’m dedicated to helping domestic violence victims and children of incarcerated parents.
I’m just so excited to be a part of change and advocacy. I’m very anxious to get my story out there. The good, the bad and the ugly. I want to inspire women.
So, in the past months, I went back to New York City, to meet and photograph Arlene, a woman I haven’t seen in the past 5 years. We decided to start to work on her story together. These are just a few powerful words from a young woman who has so much to say, and attached some pictures I shot of her both incarcerated in the past and free, how she is now.
It was the pattern of behavior that he used to establish his power and control over me.
I was only 21 when I killed him with the knife that I held for protection while in bed with me.
After all the repeated blows to my head, he was then laying in his own pool of blood while his guts spilled out in my hand.
The same pool of blood that my two daughters, Armani, then at age 4 and Jameeyah, then at age 2, had to walk around to exit the apartment we all shared.
Small and cozy, but it wasn’t home. It was a place I dreaded coming too. Because I shared it with him. My abuser. Just like he shared the countless beatings and verbal attacks in front of our children. Traumatized is what we were. Survivors, is what we have now become.
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